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2-8 d.C.

OVIDIO, Metamorfosi, VIII, 155-168, 183-262

 

155-168

creverat obprobrium generis, foedumque patebat

matris adulterium monstri novitate biformis;

destinat hunc Minos thalamo removere pudorem

multiplicique domo caecisque includere tectis.

Daedalus ingenio fabrae celeberrimus artis

ponit opus turbatque notas et lumina flexum        

ducit in errorem variarum ambage viarum.

non secus ac liquidus Phrygiis Maeandros in arvis

ludit et ambiguo lapsu refluitque fluitque

occurrensque sibi venturas aspicit undas

et nunc ad fontes, nunc ad mare versus apertum

incertas exercet aquas: ita Daedalus implet

innumeras errore vias vixque ipse reverti

ad limen potuit: tanta est fallacia tecti.

 

Ma intanto l’obbrobrio [Minotauro] della famiglia era cresciuto: il mostro biforme, mai visto, dimostrazione vivente dell’immondo adulterio di Pasifae. Minosse decide di allontanare di casa quest’essere che infama il suo matrimonio, e di rinchiuderlo nei ciechi corridoi di un complicato edificio. Dedalo, famosissimo per il suo talento nell’arte dell’architettura, esegue quest’opera scompigliando i punti di riferimento e inducendo l’occhio in errore con i rigiri tortuosi di molte vie. Come nelle campagne di Frigia il limpido Meandro si diverte a scorrere in su e in giù con curve che confondono, e tornando incontro a se stesso vede le acque che devono ancora arrivare, e rivolto ora verso la sorgente, ora verso il mare aperto, affatica la propria corrente che non sa da che parte andare: così Dedalo dissemina d’incertezze le innumerevoli vie, e a stento perfino lui riesce a tornare alla porta, tanto c’è da smarrirsi in quella dimora.

 

 

183-262

Daedalus interea Creten longumque perosus

exilium tactusque loci natalis amore

clausus erat pelago. 'terras licet' inquit 'et undas                         

obstruat: et caelum certe patet; ibimus illac:

omnia possideat, non possidet aera Minos.'

dixit et ignotas animum dimittit in artes

naturamque novat. nam ponit in ordine pennas

a minima coeptas, longam breviore sequenti,                            

ut clivo crevisse putes: sic rustica quondam

fistula disparibus paulatim surgit avenis;

tum lino medias et ceris alligat imas

atque ita conpositas parvo curvamine flectit,

ut veras imitetur aves. puer Icarus una                                     

stabat et, ignarus sua se tractare pericla,

ore renidenti modo, quas vaga moverat aura,

captabat plumas, flavam modo pollice ceram

mollibat lusuque suo mirabile patris

impediebat opus. postquam manus ultima coepto                      

inposita est, geminas opifex libravit in alas

ipse suum corpus motaque pependit in aura;

instruit et natum 'medio' que 'ut limite curras,

Icare,' ait 'moneo, ne, si demissior ibis,

unda gravet pennas, si celsior, ignis adurat:                              

inter utrumque vola. nec te spectare Booten

aut Helicen iubeo strictumque Orionis ensem:

me duce carpe viam!' pariter praecepta volandi

tradit et ignotas umeris accommodat alas.

inter opus monitusque genae maduere seniles,                          

et patriae tremuere manus; dedit oscula nato

non iterum repetenda suo pennisque levatus

ante volat comitique timet, velut ales, ab alto

quae teneram prolem produxit in aera nido,

hortaturque sequi damnosasque erudit artes                              

et movet ipse suas et nati respicit alas.

hos aliquis tremula dum captat harundine pisces,

aut pastor baculo stivave innixus arator

vidit et obstipuit, quique aethera carpere possent,

credidit esse deos. et iam Iunonia laeva                                   

parte Samos (fuerant Delosque Parosque relictae)

dextra Lebinthos erat fecundaque melle Calymne,

cum puer audaci coepit gaudere volatu

deseruitque ducem caelique cupidine tractus

altius egit iter. rapidi vicinia solis                                             

mollit odoratas, pennarum vincula, ceras;

tabuerant cerae: nudos quatit ille lacertos,

remigioque carens non ullas percipit auras,

oraque caerulea patrium clamantia nomen

excipiuntur aqua, quae nomen traxit ab illo.                              

at pater infelix, nec iam pater, 'Icare,' dixit,

'Icare,' dixit 'ubi es? qua te regione requiram?'

'Icare' dicebat: pennas aspexit in undis

devovitque suas artes corpusque sepulcro

condidit, et tellus a nomine dicta sepulti.                                   

Hunc miseri tumulo ponentem corpora nati

garrula limoso prospexit ab elice perdix

et plausit pennis testataque gaudia cantu est,

unica tunc volucris nec visa prioribus annis,

factaque nuper avis longum tibi, Daedale, crimen.                    

namque huic tradiderat, fatorum ignara, docendam

progeniem germana suam, natalibus actis

bis puerum senis, animi ad praecepta capacis;

ille etiam medio spinas in pisce notatas

traxit in exemplum ferroque incidit acuto                                 

perpetuos dentes et serrae repperit usum;

primus et ex uno duo ferrea bracchia nodo

vinxit, ut aequali spatio distantibus illis

altera pars staret, pars altera duceret orbem.

Daedalus invidit sacraque ex arce Minervae                             

praecipitem misit, lapsum mentitus; at illum,

quae favet ingeniis, excepit Pallas avemque

reddidit et medio velavit in aere pennis,

sed vigor ingenii quondam velocis in alas

inque pedes abiit; nomen, quod et ante, remansit

non tamen haec alte volucris sua corpora tollit,

nec facit in ramis altoque cacumine nidos:

propter humum volitat ponitque in saepibus ova

antiquique memor metuit sublimia casus.

Iamque fatigatum tellus Aetnaea tenebat

Daedalon, et sumptis pro supplice Cocalus armis

mitis habebatur;

 

 

Ma intanto Dedalo, stufo di essere da tanto tempo confinato a Creta, e preso dalla nostalgia della sua terra natale, era bloccato: lo bloccava il mare. “Che Minosse mi sbarri pure le vie di terra e d’acqua, - disse, - ma almeno il cielo è sempre aperto. Passeremo di lì! Sarà padrone di tutto, ma non dell’aria!”. E subito si avventurò col suo ingegno in un campo della scienza sconosciuto, rivoluzionando la natura. E infatti dispose delle penne una accanto all’altra, cominciando dalle più piccole, su su, sempre più lunghe, sicchè le avresti dette cresciute su un pendio: allo stesso modo nasce gradatamente la rustica zampogna, fatta di canne disuguali. Poi le fissò nel mezzo con spago, alla base con cera, e così saldatele le incurvò leggermente, per imitare le ali vere. Icaro, il suo figlioletto, gli girava intorno, e senza sospettare di toccar cose che gli sarebbero state fatali, con volto raggiante ora acchiappava le piume che il vento birichino faceva svolazzare, ora ammorbidiva col pollice la cera bionda, e giocherellando disturbava il prodigioso lavoro. Quando ebbe dato all’opera l’ultima mano, l’artefice provò di persona a librarsi su un paio di queste ali, e battendole rimase sospeso per aria. Quindi ne munì anche il figlio, dicendogli: “Vola a mezza altezza, Icaro, mi raccomando, in modo che l’umidità non appesantisca le penne se vai troppo basso, e il calore non le bruci se vai troppo alto. Vola tra l’una e l’altro e, ti avverto, non ti distrarre a guardare Boòte o Élice e la spada snudata di Orione. Vienmi dietro, ti farò da guida”. Gli dava le istruzioni per volare, e intanto gli applicava alle braccia quelle ali mai viste. Mentre lavorava e dava consigli, s’inumidirono le sue guance di vecchio, tremarono le sue mani di padre. Poi baciò il figlio – furon gli ultimi baci – e levatosi sulle ali volò davanti, timoroso per quello che lo seguiva (come l’uccello che dall’alto nido porta fuori per l’aria la sua tenera prole), esortandolo a non restare indietro, erudendolo in quell’arte pericolosa, battendo le ali proprie e voltandosi a guardare quelle del fanciullo. Qualcuno che prendeva i pesci con la tremula lenza, qualche pastore appoggiato sul suo bastone o contadino appoggiato sul manico dell’aratro, li vide e rimase sbalordito, e pensò che fossero dèi questi esseri capaci di muoversi per il cielo. E già si erano lasciati a sinistra Samo, sacra a Giunone, e Delo e Paro, e a destra avevano Lebinto e Calimne ricca di miele, quando il fanciullo cominciò a prender gusto all’audace volo, e si staccò dalla sua guida, e affascinato dal cielo si portò più in alto. La vicinanza del sole ardente ammorbidì la cera odorosa che teneva unite le penne. Si strusse, la cera; lui agitò le braccia rimaste nude, e non avendo con che remigare non si sostenne più in aria, e invocando il padre precipitò a capofitto, e il suo urlo si spense nelle acque azzurre, che da lui presero il nome. Il misero padre, ormai non più padre, “Icaro! – gridava intanto, - Icaro, - gridava, - dove sei? Da che parte sei andato?” “Icaro!”, gridava, quando scorse le penne sui flutti, e allora maledisse la sua arte, poi compose la salma in un sepolcro. E quella terra prese nome dal sepolto. Mentre Dedalo tumulava il corpo dello sventurato figliolo, dal bordo di un fosso fangoso una pernice ciarliera lo scorse e batté le ali e trillò dalla gioia. Ancora era un esemplare unico, negli anni prima non si era mai vista, poiché era un uccello nuovo: nuovo, ma per te, o Dedalo, perenne accusa vivente. E infatti tua sorella, senza immaginare cosa sarebbe accaduto, ti aveva affidato il suo rampollo perché tu lo istruissi, un fanciullo che aveva compiuto dodici anni, sveglio e capace. Questi, tra l’altro, notate le lische nel corpo dei pesci, le prese a modello e intagliò in una lama affilata una serie di denti e così inventò la sega. Fu anche il primo a congiungere due aste metalliche ad un unico pernio, in modo che, rimanendo fissa tra loro la distanza, una stesse ferma su un punto e l’altra descrivesse un cerchio. Dedalo fu preso dall’invidia e lo buttò giù dalla sacra rocca di Pallade, raccontando poi che era caduto. Ma Pallade, che protegge le persone di talento, sostenne il giovinetto e lo trasformò in un uccello rivestendolo di piume mentre era ancora per aria. La prontezza dell’intelligenza passò nelle ali e nelle zampe, il nome rimase quello di prima. E tuttavia quest’uccello non si innalza molto da terra, né fa il nido tra i rami e sulle cime degli alberi; svolazza radendo il suolo e depone le uova nelle siepi, e memore dell’antica caduta ha paura di andare in alto. E ormai, stanco e affranto, Dedalo aveva raggiunto la terra dell’Etna, e Cocalo, prese le armi per difendere il profugo, aveva fama d’essere un re mite.