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Giovanni Andrea dell’Anguillara, Le Metamorfosi di Ovidio,

Venezia 1563 (I ed. 1561), I

Apollo e Dafne

 

[f. Aviiv]

Lieto Apollo sen’gia, gonfio, e superbo,

di havere ucciso il mostro horrendo, e crudo,

et incontrato in quel garzone acerbo,

contra il cui stral non vale elmo, ne scudo,

vedendogli incurvar le corna, e ’l nerbo

à l’arco, e gir con tanta audacia ignudo,

si tenne à grande ingiuria, à grande incarco,

che sì fiero, & altier portasse l’arco.

 

Et à lui disse: Lascivo fanciullo

che vuoi tu fare ò di saette, p d’archi?

che sei nel mondo un gioco, & un trastullo,

à quei, che di pensier son voti, e scarchi.

Io quello hor son, ch’ogni valore annullo

À ciascun, che quest’arme adopri, e carchi,

ch’in altro spender so le mie saette,

ch’in ferir garzoncelli, o giovinette.

 

A me sta bene usar l’arco, e lo strale

che so con esso far più certa guerra,

far piaga piu secura, e più mortale

e cacciar l’aversario mio sotterra.

Trovai pur dinanzi il piu fero animale,

che si vedesse mai sopra la terra.

E fu quest’arco poderoso, e forte,

ch’a Febo diede fama, al mostro morte.

 

Leggier fanciul con la tua face attendi

ad infiammare i piu lascivi cori,

con quella ne i tuoi servi imprimi, e accendi

non so che vani tuoi scherzi, & amori;

de l’arco nulla, over poco intendi

tutti i pregi son miei, tutti gli honori.

Lo dio d’amor così punto, e schernito,

disse à lui, più che mai fiero & ardito.

 

Vaglia con fere pur l’arco, che mostri,

che ’l mio val contra te, contra ogni dio,

e quando à gli altri dei cedono i mostri,

tanto è minore il tuo valor, che ’l mio.

Quest’arco, acciò che meglio io te ’l dimostri

farà di tanto ardir pagarti il fio.

E spiegò ratto le veloci penne,

e nel monte Parnaso il nol ritenne.

 

De la risposta sua maggior faretra

due strali sceglie di contrario effetto,

questo sprona ad amare e quello arretra,

infiama l’uno, e l’altro agghiaccia il petto.

Questo fa l’huom di foco e quel di pietra,

perc’hanno questo, e quel contrario obietto.

È d’or quel, che ad amare inchina, e sforza;

di piombo quel, ch’ogni gran foco ammorza.

 

Torna con le nove armi à la vendetta

e trova il biondo dio non meno altero.

Tosto l’aurato stral tira, e saetta

il core al forte & oltraggioso arciero.

Poi gli mostra una vaga giovinetta,

che gl’imprime nel cor novo pensiero:

lo stral di piombo allhor da l’arco scaccia,

e ’l cor di quella ninfa indura, e agghiaccia.

 

Dafne figlia à Peneo fu l’alma, e bella

ninfa, che allhor solinga se ne giva,

e cercando imitar Diana, anch’ella

tu de l’huom sempre mai nemica, e schiva.

Molti, e molti cercar per moglie havella

per l’immensa beltà che ’n lei fioriva:

gli amori ella, e i connubij dispregiando,

sen giva à caccia per le selve errando.

 

Contenta hor questa, hor quella fora piglia

ne i boschi piu selvaggi, e piu remoti.

Spesso il padre le disse, ò cara figlia

gia da te spero e genero, e nipoti.

Proterva ella al contrario si consiglia

servare i casti suoi pensieri, e voti;

come fosse il connubio un grave eccesso,

conoscer non volea l’ignoto sesso.

 

Sparsa le guancie di color di rose,

il collo al padre dolcemente abbraccia

e con parole sante, e vergognose

disse. Deh padre mio dolce vi piaccia

che casta io possa per le selve ombrose

de la triforme dea seguir la traccia;

e non vi paia tal richiesta strana,

che gia concesse il suo padre à Diana.

 

[f. Aviii]

Vivi pure figlia mia vergine, e casta,

le disse il padre; ma veggio in effetto,

che al desiderio, c’hai troppo contrasta

cotesto vago tuo leggiadro aspetto.

Febo l’ama, e la mira, e non gli basta,

vorria sposarla, e far comune il letto,

la spera, e ne compiace à i desir sui

ma gli oracoli suoi mentono à lui.

[…]

Vede l’accorta ninfa il bello dio,

che cosi intento, e fiso la riguarda

e perche ha ’l cor contrario al suo desio

prende una fuga subita; e gagliarda:

ma non sì tosto al corso i piedi aprio,

che la mossa di lui non fu men tarda.

Fugge ella, ei segue, e ’n queste dolci note

Le parla, ne percio fermar la puote.

 

Deh non fuggir vaga fanciulla, e bella

dal gaudio d’ambedue, dal piacer nostro,

come fugge colomba, o tortorella,

de l’aquila crudel, l’artiglio, e ’l rostro

come dal lupo la timida agnella.

Come si fugge uno spaventoso mostro:

ben’è ’l dover, se ’l nemico si fugge,

ma non chi per amor segue, e si strugge.

 

Guarda quei pruni, oime, ferma i tuoi passi,

che non t’involin l’aureo sparso crine.

Oime s’in qualche troncot’intopassi

fra sì precipitose, alte ruine,

et io fossi cagion, che dirupassi,

per aspri scogli e fra pungenti spine,

qual mal potrei trovar sì duro, e forte

che potesse ad un dio porger la morte?

 

Deh non gir sì veloce, & habbi mente

Se qualche acuta spina in terra siede,

che con la punta sua dura, e pungente,

non fosse oltraggio al tuo tenero piede,

ò serpe, ò d’altro, insidioso dente,

che s’asconde fra l’herba, e non si vede.

Và ninfa và, con passo men gagliardo,

et anchor’io ti seguirò più tardo.

 

Cerca, e discorri, à cui non porti amor

chi fuggi, e chi sia quel, di cui paventi.

Io non son montanar, non son pastore,

non guardo rozzo qui gregge, od armenti:

deh volgi un poco à me le fronte, e ’l core,

tien nel mio volto i tuoi begli occhi intenti,

non sai stolta, non sai chi fuggi; e credi

forse molto veder, ma nulla vedi.

 

Huom terrestre io non son, ma dio del cielo,

ben che ’n terra ho domino illustre, e raro;

che son signor di Tenedo, e di Delo,

e di Delfo, e di Patara, e di Claro:

toglio à la notte il tenebroso velo,

e rendo al mondo il dì splendido, e chiaro.

Quel ch’è, ciò già fu, quanto poi fia,

si può saper per la scientia mia.

 

[f. Aviiiv]

Io son figliuol del sommo Giove, e sono

quel, che incordando i nervi al cavo legno,

rendo col canto mio sì dolce tuono,

che rompo, e placo ogni rancore, e sdegno.

E s’hora havessi il plettro, e al suo bel suon,

potessi il canto unir, forse che degno

faresti me, ch’io ti mirassi alquanto,

vinto dal vario suon, del dolce canto.

 

[…]

 

Al fin l’innamorato dio s’accorge,

ch’ella non vuol, ch ’l suo parlar conchiuda:

tace, e la mira e più bella la scorge,

che ’l corso fa, ch’ella arrossisce, e suda:

gonfia il vento le vesti, e manca, e sorge,

e mostra hor questa, hor quella parte ignuda.

L’aura, che al corso suo contraria spira,

la chioma alzata in aria apre, e raggira.

 

Visto che ogni hor più vago il divo aspetto

cresce a la ninfa, a ch’ascoltar non vuole,

non può soffrir l’acceso giovinetto

di gittar più lusinghe, e più parole:

il cuoce in modo il foco, ch’ha nel petto,

che non far più che copra, ma che vole;

e per l’ultimo suo maggior soccorso,

come gli mostra amor, ricorre al corso.

 

Tal se tal’hor la lepre al veltro innanzi

si stende al corso in ben’aperto campo,

ch’ei corre ove correva ella pur dinanzi

co’ piè l’un cerca preda e l’altra scampo:

e perché l’aversario non l’avanzi,

questa, e quel passa ogni dubbioso inciampo

già il cala figlia, e par che l’habbia in bocca

ella è in dubbio s’è presa, ei non la tocca.

 

Così Febo, e la vergine fugace

fan, questo sprona amor, quella timore.

Al fin chi segue tiranno e rapace,

forse aiutato da l’ali d’amore,

nel corso è più veloce, e pertinace.

Già il respirar, che dal corso è maggiore,

soffia nel crin de la ninfa già stanca,

a lui la forza, è la prestezza manca.

 

Mirando sbigottita il patrio fiume

Disse piangendo. O’ mio benigno padre,

s’è ver, che i fiumi habbian potere, e nume,

toglimi tosto a le mani empie, e ladre.

Terra, che tutto produci, e consume,

terra, ch’à tutti sei benigna madre,

questa, onde offesa son, bramata forma

inghiotti, e in altro corpo la trasforma.

 

Volea più dir; ma di tacer la sforza

novo stupor, che tutto ’l corpo prende,

e fallo un corpo immobil senza forza,

che non ode, non vede, e non intende.

La cinge intorno una novella scorsa,

che dal capo a le piante si distende.

Crescon le braccia in rami, e ’n verdi fronde

si spargon l’agitate chiome bionde.

 

Il piè veloce s’appiglia al terreno,

e con radice immobil vi si caccia:

la sommità del novo arbore ameno

tenne la grata sua leggiadra faccia.

Servò sol lo splendore almo, e sereno

che vuol, ch’ à Febo ancor quest’arbor piaccia

dubbioso il tocca, e trova con effetto,

tremar sott’altra scorza il vivo petto.

 

[f. B]

E ’ncontrando le mani intorno al legno

l’abbraccia come fosse un corpo humano,

il bacia, ma del bacio fugge il segno

l’arbore che ’l risolve, e ’l rende vano.

Gli parla e dice; arbore eccelso e degno

dapoi, che sposa io t’ho bramata in vano,

tu sarai l’arbor mio, tu la mia cetra,

tu la chioma ornerai, tu la faretra.

 

Annotazioni del primo libro

[…] La contenzione del tirare dell’archo tra Febo, e Cupido, non è altro che quella che fra l’utile & il dilettevole nel mondo le saette di Febo che sono i suoi raggi, sono utilissime perche giovano a gli animali, al produrre della terra, & a’ frutti e quelle di Cupido, sono soavissime e tanto che offuscano con grandissima forza l’intelletto, e la ragione all’huomo; onde per far conoscere meglio Cupido quanto le ferite de’ suoi strali fussero maggiori e piu profonde; impiagò il core dell’istesso Apollo con una saetta d’oro, la virtù della quale fu di spingerlo ad amare ardentemente come anchora feri il core di Daphne d’una di piombo che per la sua frigidità da contrario effetto rendendol il piombo tardi, & pigri ne i piaceri amorosi. Daphne cangiata in lauro alle sponde del fiume Peneo, il quale scorre per la valle Tempe amenissima selva nella Emonia è detta vagamente questa trasformatione per essere quella valle piena de lauri; che la fusse poi cangiata in quest’arbore fuggendo i piaceri amorosi di Apollo si può vedere la sua vaghezza per la simiglianza che ha questo arbore con la castità, la quale vuole esser perpetua come è perpetuo il verde lauro; e stridente e far resistenza alle fiamme d’amore come stridono e resisteno le sue foglie e i suoi rami gettati sopra ’l fuoco; alcuni hanno voluto poi dire che Ovidio finse questa favola in piacere di Augusto figurandolo cosi per Apollo, come Livia per Daphne chiamasi il lauro poi arbore di Apollo che è dio degli oracoli, e dell’indovinare per esser le sue frondi atte a far indovinare in sogno poste sotto il capo de chi vuole quando va a dormire.